Made in Italy

Al via la raccolta del mango in Italia dove salgono a oltre mille gli ettari coltivati a frutta tropicale per effetto dei cambiamenti climatici che stanno modificando radicalmente la mappa delle produzioni agricole, con l’arrivo dei frutti esotici al Sud e la migrazione degli ulivi che arrivano sulle Alpi a Nord. E’ quanto emerge dall’analisi della Coldiretti nell’evidenziare gli effetti dell’innalzamento delle temperature e della maggiore intensità delle precipitazioni. Le coltivazioni di frutta esotica Made in Italy – evidenzia la Coldiretti – sono moltiplicate negli ultimi anni superando i mille ettari fra Sicilia, Puglia e Calabria dove sempre più spesso prima si sperimentano e poi si avviano vere e proprie piantagioni di frutta originaria dell’Asia e dell’America Latina dalle banane al mango, dall’avocado al lime, dal frutto della passione all’anona, dalla feijoa al casimiroa, dallo zapote nero fino ai litchi. A far la parte del leone è la Sicilia con coltivazioni di avocado e mango di diverse varietà la cui raccolta prosegue sino alla fine di novembre. Un risultato che è il frutto della tendenza al surriscaldamento in Italia dove la classifica degli anni più roventi negli ultimi due secoli si concentra proprio nell’ultimo decennio e comprende nell’ordine il 2022 il 2018, il 2015, il 2014, il 2019 e il 2020 mentre anche il 2023 si classifica fino ad ora in Italia nella top ten degli anni più caldi di sempre con una temperatura superiore di 0,67 gradi la media storica che lo classifica al terzo posto tra le più alte mai registrate nel periodo dal 1800, quando sono iniziate le rilevazioni, secondo l’analisi della Coldiretti sui dati Isac Cnr nei primi sette mesi.

Italia in forte ritardo nella realizzazione di nuovi impianti da rinnovabili: sono 1364 quelli in lista d’attesa e ancora in fase di valutazione, il 76% distribuito tra Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna. Sono i numeri del nuovo report di Legambiente ‘Scacco matto alle rinnovabili 2023′ presentato questa mattina alla Fiera K.Ey di Rimini insieme ad un pacchetto di proposte e ad un’analisi su 4 legge nazionali e 13 leggi regionali che frenano la corsa delle fonti pulite. A pesare sullo sviluppo delle rinnovabili, secondo l’associazione, “norme obsolete e frammentate, la lentezza degli iter autorizzativi, gli ostacoli e le lungaggini burocratiche di Regioni e Soprintendenze ai beni culturali” oltre ai “no delle amministrazioni comunali e le opposizioni locali Nimby (Not In My Backyard) e Nimto (Not In My Terms of Office)”. Più nel dettaglio, spiega Legambiente, “ad oggi nella Penisola sono 1364 gli impianti in lista d’attesa, ossia in fase di Via, di verifica di Assoggettabilità a Via, di valutazione preliminare e di Provvedimento Unico in Materia Ambientale a livello statale. Il 76% distribuito tra Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna. A fronte di questo elevato numero di progetti in valutazione, e nonostante le semplificazioni avviate dall’ex governo Draghi e l’istituzione e il potenziamento appena stabilito delle due Commissioni Via-Vas che hanno il compito di rilasciare un parere sui grandi impianti strategici per il futuro energetico del Paese, sono pochissime le autorizzazioni rilasciate dalle Regioni negli ultimi 4 anni. Nel 2022 “solo l’1% dei progetti di impianti fotovoltaici ha ricevuto, infatti, l’autorizzazione. Si tratta del dato più basso degli ultimi 4 anni se si pensa che nel 2019 a ricevere l’autorizzazione sono state il 41% delle istanze, per poi scendere progressivamente al 19% nel 2020, al 9% nel 2021. Ancor peggio i dati dell’eolico on-shore con una percentuale di autorizzazioni rilasciate nel 2019 del 6%, del 4% nel 2020, del 1% nel 2021 per arrivare allo 0% nel 2022. Dati nel complesso preoccupanti se si pensa che negli ultimi anni sono aumentati sia i progetti presentati sia le richieste di connessione alla rete elettrica nazionale di impianti di energia a fonti rinnovabili, quest’ultime sono passate da 168 GW al 31 dicembre 2021 ad oltre 303 GW al 31 gennaio 2023”. “Altro campanello d’allarme – avverte l’associazione – è rappresentato anche dalla lentezza delle installazioni, come emerge dagli ultimi dati Terna, appena 3.035 MW nel 2022 – e l’incapacità produttiva del parco complessivo di sopperire alla riduzione di produzione. Le fonti rinnovabili, fotovoltaico a parte, nel 2022 hanno fatto registrare, tutte, segno negativo. L’idroelettrico, complice l’emergenza siccità, registra un meno 37,7% a cui si aggiunge il calo del 13,1% in tema di produzione da pompaggi che portano il contributo delle rinnovabili, rispetto ai consumi complessivi, al 32%. Ovvero ai livelli del 2012. Ostacoli che Legambiente racconta anche nella mappa aggiornata dei luoghi simbolo con storie, che arrivano dal Nord al Sud della Penisola, di progetti bloccati e norme regionali e locali che ostacolano le rinnovabili. Ventiquattro le nuove storie sintetizzate nella mappa, che si aggiungono alle 20 dello scorso anno. Tra i casi più emblematici quelli di Puglia, Toscana e Sardegna. Di fronte a questo quadro, Legambiente rilancia oggi le sue proposte per accelerare lo sviluppo delle rinnovabili in Italia e l’effettiva realizzazione degli impianti “a partire dall’aggiornamento delle Linee Guida per l’autorizzazione dei nuovi impianti ferme al 2010 e un riordino delle normative per arrivare, attraverso un lavoro congiunto, tra il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, il ministero delle Imprese e del Made in Italy e il ministero della Cultura, ad un Testo Unico che semplifichi gli iter di autorizzazione degli impianti, definisca in modo univoco ruoli e competenze dei vari organi dello Stato, dia tempi certi alle procedure. In questa partita rimane centrale il dibattito pubblico, uno strumento strategico sia per migliorare l’accettabilità sociale dei progetti sia per accelerare i processi autorizzativi ed evitare contenziosi inutili”. ”Al governo Meloni – dichiara il presidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani – torniamo a ribadire che il Paese non deve diventare l’hub del gas, ma quello delle rinnovabili. Se davvero si vuole contrastare la crisi climatica, accelerare la transizione ecologica e centrare gli obiettivi di decarbonizzazione indicati dall’Europa, l’Italia deve puntare con fermezza su rinnovabili, efficienza, autoproduzione, reti elettriche e accumuli. In questo percorso, è indispensabile che il governo metta in campo una politica di breve, medio e lungo periodo anche rispetto agli obiettivi di decarbonizzazione non più rimandabili. Primo fra tutti occorre semplificare l’iter dei processi autorizzativi per garantire certezza dei tempi e potenziare gli uffici delle Regioni che rilasciano le autorizzazioni affinché gestiscano meglio i progetti che si stanno accumulando. Occorre riordinare la normativa sulle rinnovabili e aggiornare il Pniec rispondendo al nuovo scenario energetico che dovrà evolvere verso la configurazione di nuovi paesaggi sempre più rinnovabili e pensando sia agli obiettivi di decarbonizzazione al 2035 sia al modo migliore di integrarle nei territori”. ”Le fonti rinnovabili, insieme a politiche serie e lungimiranti di efficienza energetica, rappresentano una chiave strategica non solo per decarbonizzare il settore energetico, priorità assoluta nella lotta alla crisi climatica, ma anche per portare benefici strutturali nei territori e alle famiglie e per creare opportunità di crescita ed innovazione in ogni settore. Se è vero che non esiste l’impianto perfetto – commenta Katiuscia Eroe, responsabile nazionale energia di Legambiente – è altrettanto vero che questi impianti possono essere integrati al meglio ed essere valore aggiunto per i cittadini e le cittadine che vivono quei territori. Per questo è fondamentale non depotenziare uno strumento prezioso come quello del dibattito pubblico, come rischia di fare il governo Meloni con la nuova proposta del Codice degli Appalti. La partecipazione dei territori e il loro protagonismo sono parte essenziale della giusta transizione energetica’.

Arriva l’etichetta di origine obbligatoria, che salva la pummarola Made in Italy dall’inganno dei prodotti spacciati come italiani. Lo afferma la Coldiretti che annuncia la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale 47 del 26 febbraio 2018 del decreto interministeriale per l’origine obbligatoria sui prodotti come conserve e salse, oltre al concentrato e ai sughi, che siano composti almeno per il 50% da derivati del pomodoro.
“Il decreto – spiega la Coldiretti – prevede che le confezioni di tutti i derivati del pomodoro, sughi e salse prodotte in Italia dovranno avere obbligatoriamente indicate in etichetta le seguenti diciture: Paese di coltivazione del pomodoro: nome del Paese nel quale il pomodoro viene coltivato; Paese di trasformazione del pomodoro: nome del paese in cui il pomodoro è stato trasformato. Se queste fasi avvengono nel territorio di più Paesi possono essere utilizzate, a seconda della provenienza, le seguenti diciture: Paesi UE, Paesi NON UE, Paesi UE E NON UE”.
Si tratta di “una attesa misura di trasparenza per produttori e consumatori dopo che dall’estero – rileva la Coldiretti – sono arrivati nel 2017 ben 170 milioni di chili di derivati di pomodoro che rappresentano circa il 25% della produzione nazionale in equivalente di pomodoro fresco. Un fiume di prodotto che per oltre 1/3 arriva dagli Stati Uniti e per oltre 1/5 dalla Cina e che – denuncia la Coldiretti – dalle navi sbarca in fusti da 200 chili di peso di concentrato da rilavorare e confezionare come italiano poiché nei contenitori al dettaglio è obbligatorio indicare solo il luogo di confezionamento, ma non quello di coltivazione del pomodoro”.
I derivati del pomodoro sono il condimento piu’ apprezzato dagli italiani che ne consumano circa 30 chili a testa all’anno a casa, al ristorante o in pizzeria secondo le stime della Coldiretti.

Per quasi 6 italiani su 10 (58%) la pasta e’ il vero simbolo del Made in Italy nel mondo, seguita dall’olio extravergine d’oliva (19%) e dal vino (18%). Emerge da un sondaggio Coldiretti/Ixe’ lanciato in occasione del Pasta Day organizzato a Roma all’Hotel Ergifeper celebrare l’entrata in vigore dei due decreti interministeriali sull’indicazione dell’origine obbligatoria del riso e del grano per la pasta in etichetta pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale. Gli italiani sono i maggiori consumatori di pasta con 23,5 kg a testa – prosegue Coldiretti – davanti a Tunisia (16 kg), Venezuela (12 kg), Grecia (11,2 kg), Svizzera (9,2), Usa e Argentina (8,8 kg), tallonati da Iran e Cile (8,5 kg) e Russia (7,8 kg).
Non e’ un caso – precisa – che l’80% degli italiani mangia pasta o pane almeno una volta al giorno. Per quanto riguarda la qualita’ – secondo Coldiretti – la tendenza e’ verso la pasta con grani 100% italiani e con un’immagine di forte legame ai territori di origine. Una tendenza – spiega l’associazione – che ha portato al prepotente ritorno dei grani nazionali antichi. Una opportunita’ resa possibile da un milione e 350mila ettari di coltivazioni di grano duro con un raccolto che – precisa la Coldiretti – quest’anno sfiorera’ i 4 miliardi e 300 milioni di chili concentrato nell’Italia meridionale, soprattutto in Puglia e Sicilia che da sole rappresentano circa il 40% del totale nazionale. Nel mondo – evidenzia la Coldiretti – l’Italia conserva il primato sulla produzione di pasta con 3,2 milioni di tonnellate all’anno davanti a Usa, Turchia, Brasile e Russia. Ma e’ proprio sui mercati mondiali che si avvertono i primi campanelli di allarme visto che, in controtendenza rispetto all’andamento del Made in Italy all’estero che ha superato la storica cifra di 41 miliardi di euro, si riducono invece le esportazioni italiane di pasta che nel 2017 hanno fatto segnare un preoccupante calo in valore del 4% (proiezioni Coldiretti su dati Istat). Si tratta – sottolinea la Coldiretti – degli effetti della rapida moltiplicazione di impianti di produzione all’estero, dagli Stati Uniti al Messico, dalla Francia alla Russia, dalla Grecia alla Turchia, dalla Germania alla Svezia.
Il settore infatti – aggiunge – sta affrontando i pesanti effetti della delocalizzazione che dopo aver colpito la coltivazione del grano sta adesso interessando la trasformazione industriale con pesanti conseguenze economiche ed occupazionali.

Le esportazioni di cibo e bevande dall’Italia negli Stati Uniti sono aumentare del 6% nel 2017 per un totale che per la prima volta arriva a 4 miliardi di euro, il massimo di sempre. E’ quanto emerge da una proiezione della Coldiretti sulla base di una analisi degli ultimi dati Istat relativi al commercio estero. “Il vino – precisa la Coldiretti in un comunicato – risulta essere il prodotto più gettonato dagli statunitensi, davanti a olio, formaggi e pasta. Anche se a preoccupare è ora il rafforzamento dell’Euro nei confronti del dollaro la politica di Trump non ha frenato fino ad ora il Made in Italy negli Stati Uniti Gli Usa – sottolinea la Coldiretti – si collocano al terzo posto tra i principali italian food buyer dopo Germania e Francia, ma prima della Gran Bretagna”. Il successo sul mercato nordamericano ha trainato dunque le performance del Made in Italy agroalimentare all’estero con le esportazioni che toccano per la prima volta i 41 miliardi di euro nel 2017 per effetto di un incremento del 7% rispetto allo scorso anno.

Semplificazione degli adempimenti burocratici, abbattimento del carico fiscale e tutela del Made in Italy, ma anche sostegno ai giovani per avviare un’impresa agricola e tanto supporto per innovare e internazionalizzare il settore. E’ quanto chiedono oggi gli agricoltori alla rappresentanza dell’epoca digitale che deve essere concreta, connessa con il reale, vicina alle necessita’ degli imprenditori associati e stare al passo con i tempi. Un ‘pacchetto’ di fatti reali, che emerge dall’indagine realizzata dal Censis per la Cia- Confederazione italiana agricoltori, presentata oggi nell’ambito delle celebrazioni per il quarantennale della Confederazione. ”La Cia di oggi guarda alle sue radici, ma vive nel presente ed e’ proiettata nel futuro connessa alle necessita’ degli imprenditori associati”, ha detto il presidente nazionale Dino Scanavino, nel tracciare l’identikit della nuova organizzazione agricola professionale. Secondo lo studio del Censis, la spinta all’iscrizione a un’associazione oggi dipende oggi da due fattori: l’idea che ci sia qualcuno in grado di rappresentare in sede politica interessi ed esigenze degli imprenditori agricoli (76,6%) e la possibilita’ di avvalersi di servizi ad hoc che l’associazione mette a disposizione dei propri iscritti (93,6%).

Al via a Firenze Pitti Uomo edizione n.92, una fiera da quasi 400 milioni di euro che si chiuderà il 16 giugno. “La nostra moda non pretende, non richiede, non si nasconde dietro ai protezionismi il 44% degli espositori e’ straniero, e lo e’ il 57% dei nuovi arrivi – ha detto il sottosegretario allo Sviluppo economico Ivan Scalfarotto – e tutti sanno che s’investe e poi i risultati avvengono dopo un po’, come succede in agricoltura”. E ha continuato: “Non si cresce al riparo dei dazi e delle barriere, ma solo con la competizione in campo aperto, solo la competizione porta ibridazione e arricchimento”. Secondo il sottosegretario “la moda italiana sta recuperando l’idea della propria grandezza, in un settore dove il talento individuale e’ fondamentale, il talento se sta dentro un tessuto comune fa gioco di squadra”. Per il sindaco Dario Nardella: “Si sta continuando a lavorare sul filone della cultura, ma anche su missioni assieme per promuovere il Made in Italy nel mondo”.

Salgono a 40mila gli agricoltori che nelle proprie aziende nel 2016 hanno salvato semi antichi e le piante rare del Made in Italy dal rischio di estinzione. E’ quanto emerge dall’analisi della Coldiretti/Ixe’ presentata insieme alla Sis, Societa’ Italiana Sementi, sul ritorno delle antiche sementi della tradizione italiana che dopo aver rischiato di sparire dalla tavole sono stati riscoperti per le caratteristiche specifiche di resistenza e per le proprieta’ distintive, a salvaguardia di un patrimonio alimentare, culturale ed ambientale storico del Paese. La tendenza all’omologazione delle coltivazioni spinta dai moderni sistemi di produzione e distribuzione degli alimenti per rendere uniformi varieta’ e produzioni ha determinato – denuncia Coldiretti – una concentrazione delle specie coltivate che mettano a rischio sia il potere contrattuale dei produttori agricoli, sia la sovranita’ alimentare dei vari Paesi e dei loro cittadini. Non a caso la Fao ha lanciato l’allarme per la crescente uniformita’ delle colture mondiali, che ha portato nell’ultimo secolo ad una perdita del 75% della biodiversita’ vegetale ed ha stimato il rischio da qui al 2050 della perdita di un terzo delle specie oggi rimaste. Un pericolo aumentato dopo un biennio di concentrazioni di grandi gruppi multinazionali che quest’anno ha portato il 60% del mercato delle sementi nelle mani di tre multinazionali, con la ChemChina che ha acquisito la Syngenta e le fusioni tra Bayer e Monsanto e tra Dupont e Dow Chemical. La concentrazione dei semi nelle mani di pochi – commentano Coldiretti e Sis – determina il pericolo di indirizzare la produzione esclusivamente verso tipi di coltivazioni piu’ diffuse proprio in un momento in cui i cambiamenti climatici e il conseguente insorgere di nuove fitopatologie richiedono interventi per tutelare adeguatamente il lavoro dei produttori che hanno puntato sulla qualita’ e sulla biodiversita’. A questa situazione Sis, la maggiore societa’ sementiera italiana, risponde con la prima produzione certificata del grano duro “Senatore” Cappelli ma anche con la riscoperta di semi di riso, come il “Lido”, che dopo essere quasi scomparso agli inizi degli anni ’90, torna in produzione perche’ sta conquistando il palato dei giapponesi, e l’erba medica “Garisenda”, storica varieta’ ottenuta con un attento lavoro di selezione dei semi delle piante migliori di una varieta’ romagnola, capace di resistere in terreni siccitosi e in aree marginali e di fornire fieno e farina disidratata per una alimentazione animale priva di Ogm. L’attivita’ della Sis, sia nel recupero di antiche varieta’, sia nell’attivita’ di ricerca di nuove sementi, e’ tesa a recuperare il legame tra seme e territorio cogliendone gli aspetti peculiari per valorizzare ogni varieta’ nello specifico dei suoli, del clima, dell’acqua delle aree dove verranno coltivate: la sua attivita’ di ricerca si svolge in terreni che vanno dalle Alpi alla Sicilia, con la moltiplicazione dei semi che viene fatta su una superficie di 14 mila ettari.

“L’accordo siglato oggi da Ice e la statunitense Walmart, la più grande catena operante nel canale della grande distribuzione organizzata, sancisce il successo della strategia adottata con il piano straordinario per il Made in Italy che ha portato sinora negli Usa un ritorno pari a 15 volte l’investimento effettuato”. Lo ha dichiarato il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda.
“L’accordo – ha spiegtoa – dimostra in maniera evidente che il suolo americano, nonostante sia già uno dei principali mercati di sbocco per i nostri prodotti, consente ancora notevoli margini di crescita. In particolare per il Food, negli ultimi due anni sono stati chiusi con successo 10 accordi con 7 retailer, che hanno portato all’introduzione di 368 nuovi fornitori e 1.200 nuovi prodotti italiani sugli scaffali americani”. Il ministro ha sottolineato che “grazie al lavoro dell’Ice le eccellenze agroalimentari italiane potranno contare anche sui 3600 punti vendita del più grande retailer del mondo”.

Gli interessi illeciti nel settore agroalimentare con l’infiltrazione nel mercato ortofrutticolo di Milano e la rete di distribuzione di prodotti oleari negli Usa facente capo ad un imprenditore italoamericano organico alla cosca Piromalli sono la punta di un iceberg del business della criminalita’ organizzata nell’agroalimentare che vale 16 miliardi all’anno. Cosi’ la Coldiretti nel commentare positivamente il blitz del Ros contro la potente cosca dell”ndrangheta con 33 i provvedimenti di fermo emessi dalla Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria. La malavita si appropria di vasti comparti dell’agroalimentare e dei guadagni che ne derivano, distruggendo la concorrenza e il libero mercato legale e soffocando l’imprenditoria onesta, ma compromette in modo gravissimo la qualita’ e la sicurezza dei prodotti, con l’effetto indiretto di minare profondamente l’immagine dei prodotti italiani e il valore del marchio Made in Italy. Gli aspetti patologici dell’indotto agroalimentare, come la lievitazione dei prezzi di frutta e verdura nella filiera che va dal produttore al consumatore, sono la conseguenza non solo dell’effetto dei monopoli, ma anche delle distorsioni e speculazioni dovute alle infiltrazioni della malavita nelle attivita’ di intermediazione dai mercati ortofrutticoli ai trasporti. L’ortofrutta e’ sottopagata agli agricoltori su valori che non coprono neanche i costi di produzione, ma i prezzi moltiplicano fino al 300% dal campo alla tavola anche per effetto del controllo monopolistico dei mercati operato dalla malavita in certe realta’ territoriali. Gli interessi criminali sono rivolti anche alle forme di investimento nelle catene commerciali della grande distribuzione, nella ristorazione e nelle aree agro-turistiche, nella gestione dei circuiti illegali delle importazioni/ esportazioni di prodotti agroalimentari sottratti alle indicazioni sull’origine e sulla tracciabilita’ non curandosi delle gravi conseguenze per la catena agroalimentare, per l’ambiente e la salute. Proprio per alzare il livello di attenzione verso le “agromafie”, Coldiretti ha costituito l’Osservatorio sulla criminalita’ in agricoltura, presieduto dal presidente Roberto Moncalvo e con il Dott. Giancarlo Caselli alla guida del comitato scientifico, che presenta annualmente con l’Eurispes il Rapporto Agromafie.