Usa

Era il 28 maggio del 1975 e il senatore americano Joseph R. Biden scrisse ad Hannah Arendt, filosofa e politologa di rango, autrice de La banalità del male, per complimentarsi di un articolo in cui la donna disquisiva della menzogna in politica. Biden é l’attuale presidente Usa, e ha prevalso sul rivale, Donald Trump, che delle menzogne in politica, delle fake news, ha fatto una regola del suo mandato e del suo impegno politico. E’ davvero stupefacente che ben 45 anni prima un esponente politico importante degli States sentisse il bisogno di approfondire un tema cosi importante che lo avrebbe diviso in modo netto dall’altro pretendente, portandolo alla vittoria e segnando non solo per gli Stati Uniti ma per tutto il mondo un segnale di speranza, di dialogo e di buona politica.

L’Etiopia si aspetta dagli Stati Uniti “un sostegno finanziario significativo” per il suo programma di riforme: lo ha sottolineato il primo ministro Abiy Ahmed, in una nota diffusa in coincidenza con la visita ad Addis Abeba del segretario di Stato americano Mike Pompeo. Insignito lo scorso anno del Premio Nobel per la pace, Abiy Ahmed ha avviato una liberalizzazione sia economica che politica. In Etiopia, un Paese di oltre cento milioni di abitanti, il 29 agosto sono in programma le elezioni politiche. In vista di questo appuntamento, per sostenerne l’organizzazione, gli Stati Uniti hanno gia’ donato 37 milioni di dollari. Durante la visita ad Addis Abeba, Pompeo e’ tornato anche sulla disputa internazionale legata alla costruzione da parte dell’Etiopia di una diga sul Nilo. Secondo il segretario di Stato, per risolvere il contenzioso che contrappone in particolare Addis Abeba e Il Cairo serviranno “mesi”, nonostante le speranze alimentate nelle settimane scorse da una mediazione di Washington. Oggi Pompeo concludera’ la sua visita ad Addis Abeba, ultima tappa di una missione che lo aveva gia’ portato in Senegal e in Angola, con un discorso nella sede della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa.

Si susseguono le notizie dell’occupazione turca e dell’eccidio curdo. Le violenze e le uccisioni sono peraltro ampiamente documentate e fanno il giro del mondo sui social media e sul web in genere. Intanto, le truppe turche hanno iniziato insieme alle milizie arabe filo-Ankara l’offensiva su Manbij, località strategica controllata dai curdi a ovest del fiume Eufrate. E sul fronte Usa? Sanzioni annunciate da Trump al governo turco e dazi su acciaio. Donald Trump che a breve firmerà un ordine esecutivo “per imporre sanzioni contro dirigenti ed ex dirigenti del governo turco e qualsiasi persona che contribuisca alle azioni destabilizzanti della Turchia nel nordest della Siria”. Saranno inoltre aumentati i dazi sull’acciaio sino al 50% e fermati i negoziati per un accordo commerciale con Ankara da 100 miliardi di dollari. Basterà? Sicuramente no. Sanzioni economiche, forse, ritiri delle truppe certi: le forze speciali americane si sono ritirate dalla loro postazione a sud di Kobane, dove si trovavano a difesa delle milizie curde dall’offensiva turca nel nord-est della Siria. Lo riferisce la Cnn turca. Erdogan comunque mostra i muscoli “Andremo fino in fondo – minaccia il tiranno – siamo determinati. Finiremo quello che abbiamo iniziato”, confermando in questo modo l’intenzione di non interrompere l’offensiva contro i curdi nel nord-est della Siria. Dall’Unione europea solo indignazione e poco più ‘L’Ue condanna l’azione militare della Turchia che mina seriamente la stabilità e la sicurezza di tutta la regione”. Si legge nel testo di conclusioni del Consiglio esteri dell’Ue sull’offensiva militare di Ankara nel nord est della Siria, in cui si sancisce anche “l’impegno degli Stati a posizioni nazionali forti rispetto alla politica di export delle armi”. Inoltre nel documento si richiede un “incontro ministeriale della Coalizione internazionale contro Daesh”. Sostanzialmente, Bruxelles sta a guardare, ma Erdogan lo sa bene.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha effettuato ieri una visita a sorpresa al contingente militare Usa di stanza in Iraq. La visita – la prima del presidente Usa a un contingente di stanza in una regione militarmente sensibile del Globo – giunge nel pieno delle polemiche per la decisione di Trump di ritirare le forze statunitensi dalla Siria. Nei giorni scorsi l’annuncio ha suscitato critiche da parte di ufficiali del Pentagono e alleati degli Usa, ed ha portato alle dimissioni del segretario della Difesa, Jim Mattis. Trump ha difeso la propria decisione durante la visita in Iraq di ieri, affermando che la decisione di lasciare la Siria evidenzia la nuova statura degli Usa sul palcoscenico globale e incarna la politica del “primato americano”. “Siamo di nuovo rispettati come paese”, ha dichiarato l’inquilino della Casa Bianca durante un discorso presso la base aerea di al Asad, circa 60 chilometri a ovest di Baghdad. L’Iraq ha proclamato la sconfitta dell’Isis all’interno del territorio nazionale nel dicembre 2017, ma la visita di Trump e’ stata tenuta segreta sino all’ultimo, come da pratica consolidata in occasione dei viaggi di presidenti Usa in aree di guerra o ad alto rischio. L’ex presidente George W Bush ha visitato l’Iraq in quattro occasioni durante la sua presidenza, e Barack Obama una.

La delegazione Usa in trasferta in Cina ha chiesto a Pechino di tagliare di 200 miliardi di dollari il deficit commerciale bilaterale che caratterizza gli scambi tra i due Paesi, di ridurre le tariffe e gli aiuti alle industrie nei settori avanzati. E’ quanto si legge in un documento, rivelato dal Financial Times, che la delegazione Usa ha fatto pervenire alle autorita’ di Pechino in vista del negoziato sul commercio. Sulle tariffe la richiesta e’ che la Cina imponga dazi non maggiori di quelli stabiliti dagli Usa sulle stesse merci. Il documento invita inoltre la Cina a tagliare le sovvenzioni legate al piano di politica industriale “Made in 2025” destinato a promuovere lo sviluppo di industrie avanzate, compresi i veicoli elettrici e l’intelligenza artificiale. Il documento, fatto pervenire alle autorita’ cinesi prima dell’avvio dei negoziati, richiede anche la rimozione delle restrizioni agli investimenti che interessano le societa’ statunitensi operanti in Cina, inclusi i tetti alle quote azionarie. I 200 miliardi di dollari di riduzione del deficit commerciale degli Usa con la Cina vanno comparati con un deficit complessivo che l’anno scorso e’ stato di 337 miliardi di dollari.

Gli Stati Uniti esenteranno per il momento una serie di alleati tra cui Europa, Australia, Corea del Sud, Argentina e Brasile dai dazi su acciaio e alluminio che entreranno in vigore stanotte. Lo ha detto il rappresentante al commercio Usa Robert Lighthizer: “Il presidente Donald Trump ha deciso di sospendere l’imposizione dei dazi rispetto a questi paesi”, ha detto oggi Lighthizer alla commissione Finanze del Senato, secondo quanto riporta Bloomberg. “Noi abbiamo i due Paesi del Nafta e sappiamo quali sono (Canada e Messico, ndr). Abbiamo l’Europa, l’Australia, l’Argentina, il Brasile e la Corea del sud con cui stiamo negoziando”, ha detto rispondendo in un’audizione al Congresso ad una domanda sui Paesi che verranno esentati dai dazi. Schiaffo Trump alla Cina, tariffe e sanzioni per 60 mld – Donald Trump ha firmato alla Casa Bianca il Section 301 action’, un memorandum che ha come obiettivo tariffe ed altre sanzioni per un valore annuo di almeno 60 miliardi di dollari contro la Cina, accusata di rubare agli Usa segreti tecnologici e commerciali, privando le società americane di ricavi per miliardi di dollari e cancellando migliaia di posti di lavoro. Le misure colpiranno l’import cinese in circa cento categorie commerciali e imporranno restrizioni agli investimenti cinesi negli Usa. Trump ha detto di aver un “rispetto enorme” per il presidente cinese Xi e che vede Pechino come “un amico” ma che il deficit commerciale americano con la Cina è “troppo alto”, giustificando così le contromisure commerciali che si sta apprestando a firmare, dopo aver chiesto alla Cina di ridurre immediatamente il surplus di 100 miliardi di dollari.

i dazi non sono la strada giusta nelle politiche commerciali. E’ quanto ha detto il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ieri pomeriggio duraten una conversazione telefonica con il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Al centro del colloquio le politiche commerciali. “I dazi non sono la via da seguire” ha detto il premier, aggiungendo quanto sia “importante proseguire nel dialogo con gli Stati Uniti”. Gentiloni ha continuato: “Nel prossimo Consiglio europeo valuteremo una posizione da assumere in comune”.

La Casa Bianca vorrebbe cambiare i criteri di retribuzione per oltre 1,5 milioni di dipendenti federali, privilegiando gli aumenti legati agli obiettivi raggiunti piuttosto che all’incarico. Lo scrivono i media Usa che citano i dirigenti dell’amministrazione. Questa ‘rivoluzione’ si troverebbe nel piano di bilancio 2019 che il presidente degli Usa Donald Trump illustrerà lunedi’ prossimo.

La Russia e gli Stati Uniti dovrebbero riprendere il dialogo sulla difesa missilistica, di grande importanza a livello globale. Lo ha detto il vice ministro degli Esteri russo Seregej Rjabkov, come riferisce l’agenzia di stampa Sputnik, ripresa dall’agenzia Nova. “Vorrei sottolineare l’importanza del tema della difesa missilistica. Permettetemi di ricordarvi che esiste un legame indissolubile fra gli armamenti strategici offensivi e la difesa missilistica, come ribadito nell’attuale Trattato per la riduzione degli armamenti strategici offensivi. Per lungo tempo non c’e’ di fatto stato dialogo con la controparte Usa, ed ora e’ giunto il momento propizio per tornare a parlarne”, ha affermato Rjabkov. Le parole del funzionario diplomatico di Mosca giungono dopo la pubblicazione della Nuclear Posture Review da parte del Dipartimento della Difesa Usa, in cui si sottolinea la preoccupazione per lo sviluppo delle capacita’ nucleari russe.
Il vice ministro degli Esteri ha inoltre sottolineato l’importanza di superare le difficolta’ nelle attuali relazioni bilaterali fra Mosca e Washington nelle crisi regionali.

Le esportazioni di cibo e bevande dall’Italia negli Stati Uniti sono aumentare del 6% nel 2017 per un totale che per la prima volta arriva a 4 miliardi di euro, il massimo di sempre. E’ quanto emerge da una proiezione della Coldiretti sulla base di una analisi degli ultimi dati Istat relativi al commercio estero. “Il vino – precisa la Coldiretti in un comunicato – risulta essere il prodotto più gettonato dagli statunitensi, davanti a olio, formaggi e pasta. Anche se a preoccupare è ora il rafforzamento dell’Euro nei confronti del dollaro la politica di Trump non ha frenato fino ad ora il Made in Italy negli Stati Uniti Gli Usa – sottolinea la Coldiretti – si collocano al terzo posto tra i principali italian food buyer dopo Germania e Francia, ma prima della Gran Bretagna”. Il successo sul mercato nordamericano ha trainato dunque le performance del Made in Italy agroalimentare all’estero con le esportazioni che toccano per la prima volta i 41 miliardi di euro nel 2017 per effetto di un incremento del 7% rispetto allo scorso anno.