Interviste

Giusy La Piana racconta nel suo libro come sopravvivere nella giungla della comunicazione
intervista di Alfonso Lo Sardo

‘Una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe’. Questo il pensiero di Mark Twain, quasi a voler confermare che la guerra che ogni giorno la verità combatte contro la menzogna non solo non conosce un termine ma che i mezzi, le risorse di cui può disporre l’una contro l’altra non sono uguali. A questo bisogna aggiungere anche che, molto spesso, la menzogna risulta essere più conveniente, più pratica, più rapida, meno noiosa e che ci toglie da imbarazzi e difficoltà inimmaginabili. E’ per tutti questi motivi che vi consiglio la lettura dell’ultimo libro di Giusy La Piana dal titolo Se menti ti scopro! (edizione Ultra) un vademecum illuminato sul mondo della bugia, sui bugiardi, sulle tecniche utili per smascherarli, ma non solo: il testo ci fornisce, con un linguaggio veloce e puntuale, informazioni utilissime sulla comunicazione non verbale, sulla capacità di comunicare in modo credibile ed efficace. Ad ogni modo, abbiamo intervistato l’autrice……

Giusy La Piana

Innanzitutto grazie Giusy per questa intervista. Sai bene che l’argomento è tra quelli che mi appassionano. 
Ti chiedo subito, così, a freddo, e mi raccomando, non mentire: ma il tuo saggio non pensi che, oltre a rappresentare una difesa per le vittime dei bugiardi, possa essere un manuale di perfezionamento proprio a vantaggio dei più incalliti e inguaribili mentitori? Hai pensato che i bugiardi potessero trarre profitto dai tuoi suggerimenti e diventare più bravi?
<<La cattiva notizia è che i bugiardi non ne hanno alcun bisogno poiché saper mentire bene è un talento di non semplice acquisizione. La buona notizia però è che molti bugiardi compiono degli errori, lasciano degli indizi comportamentali, che potrebbero rivelare incongruenze e che è possibile imparare a leggere>>.

Fai riferimento ad una ‘giungla quotidiana della comunicazione’. Siamo in effetti sommersi da informazioni più o meno veritiere da cui difenderci. Il tuo libro si propone di abituare la nostra mente a fiutare la menzogna, ma qual è, dal tuo osservatorio lo stato dell’arte? C’è davvero una guerra che qualcuno ha dichiarato alla nostra ingenuità? E possiamo acquisire una sensibilità critica nei confronti di ciò che percepiamo non essere vero?
<<L’idea che sta alla base di Se menti di scopro! è quella di fornire al lettore gli strumenti per una buona comunicazione interpersonale, per potenziare la capacità di farsi comprendere nella giusta maniera, per migliorare la qualità delle relazioni e per disinnescare le bombe della manipolazione e del fraintendimento comunicativo. Viviamo in un contesto che è terreno fertile per nascondere l’evidenza e che sempre più alimenta e si alimenta di menzogne. Di conseguenza, la necessità di sapersi tutelare e difendere è molto alta>>.

Un paragrafo del tuo libro porta questo titolo ‘Le donne mentono più e meglio degli uomini’. Tu sostieni che ‘per secoli le donne hanno dovuto raschiare sprazzi di segreta libertà dall’opprimente sistema di regole….’. Praticamente la donna ha fatto di necessità virtù? E ancora: esiste un modo di mentire proprio della donna rispetto a quello maschile?
<<Poveri uomini. Hanno la nomea di essere più bugiardi delle donne ma è solo perché vengono smascherati più facilmente. Le donne rispetto agli uomini hanno maggiore propensione quando si tratta di smascherare le bugie, notare dettagli e registrare incongruenze fra ciò che ascoltano e quel che si mostra al loro sguardo. Quattro donne su cinque ammettono di dire almeno una bugia al giorno. Il campionario di bugie va da questioni economiche al proprio peso passando per un finto interesse, nei confronti di determinate materie, con l’intento di fare colpo su qualcuno o di accreditarsi in una determinata cerchia>>.

Una parte rilevante del tuo libro riguarda l’importanza della comunicazione non verbale, la cosiddetta Cnv, che studi da anni. E’ il cosiddetto linguaggio del corpo che mentirebbe meglio e prima della parola. Quale livello di attendibilità hanno i movimenti del corpo, delle mani, del viso nell’anticipare una menzogna? E’ davvero così forte la tendenza, più o meno generale, a segnalare con il corpo la menzogna che stiamo per costruire?
<<Il linguaggio spontaneo del corpo è una sorta di cartina tornasole dei nostri sentimenti. Un approfondito studio della comunicazione non verbale ci consente di contestualizzare e decifrare determinati gesti e reazioni che sono spie delle sensazioni provate dall’interlocutore. Un occhio allenato, e che sa cosa cercare, riesce a notare la discordanza fra segnali non verbali manipolati e istintivi. Ciò può costituire un valido aiuto per difendersi dai menzogneri ma anche per cogliere segnali di rabbia, irritazione, insofferenza, disgusto, ansia, disaccordo, paura, voglia di andarsene o chiusura>>.

Il sorriso e le sue infinite maschere. Tu sostieni che un sorriso può nascondere un mondo di sensazioni e di significati non necessariamente assimilabili alla felicità e a situazioni positive. Ma dobbiamo proprio stare sempre all’erta e diffidare di ogni atteggiamento? Il nemico, ossia nel nostro caso il bugiardo, le usa proprio tutte?
<<Il bugiardo veramente motivato può arrivare a livelli di inventiva impensabili persino per il più abile degli sceneggiatori. I motivi per mentire superano di gran lunga, in termini quantitativi, i motivi per non farlo. Vivere con l’ansia del sospetto, però, sarebbe un inferno. Non possiamo di certo permetterci di non credere a nostra madre, a un coniuge o a un amico. La fiducia sta alla base di ogni relazione, persino di quella con se stessi. Quanti danni combina chi non ha fiducia nelle proprie capacità! Abbiamo sempre una scelta: possiamo decidere di mentire o di essere sinceri, di smascherare l’inganno o di sorvolare. È nelle scelte che facciamo che si riscontra la nostra vera natura>>.

Ho trovato particolarmente interessante il riferimento che fai alla credibilità e alla coerenza di una persona quale parametro per verificare l’attendibilità di una persona e delle sue affermazioni. Puoi approfondire questo aspetto? Mi sembra dirimente rispetto allo smascheramento di una eventuale menzogna….
<<Coltivare una giusta immagine di sé significa anche fare in modo che messaggio verbale e non verbale siano in accordo e sincronia. Puoi essere artefice di azioni prodigiose ma se non trovi il modo adeguato di comunicarle sarà quasi come non aver fatto nulla>>.

Si mente più con le parole, con i silenzi o con i gesti?
<<Il cacciatore di bugie sa che spesso le cose veramente rilevanti da cogliere sono espresse con il non verbale, attraverso cose come la mimica facciale, la postura o il suono della voce. Si può mentire anche senza parlare. Ad esempio, chi omette spesso raggiunge lo stesso obiettivo di chi racconta una frottola>>.

Uno dei più grandi studiosi di comunicazione, Paul Watzlawick, sostiene che ‘comunque ci si sforzi, non si può non comunicare’ e che ogni nostra attività o inattività ha valore di messaggio. Ebbene, pensi che questa consapevolezza possa essere un peso, una costrizione o implichi, invece, una straordinaria opportunità?
<<Se solo fossimo realmente e pienamente consapevoli di ciò, considereremmo la buona comunicazione non come una opzione attuata da pochi ma come una esigenza che riguarda tutti, nessuno escluso, e ogni ambito>>.

Esiste o meno un ambito della nostra vita in cui si registra una maggiore percentuale di menzogne? Si mente di più in amore, al lavoro, in famiglia, tra amici….
<<Secondo recenti ricerche si mente con più frequenza in ambito domestico, al secondo posto c’è l’ambiente di lavoro e al terzo le conversazioni in chat. Mentiamo per tanti motivi: per sottrarci a una punizione, per accaparrarci qualche vantaggio, per suscitare ammirazione, per proteggere qualcuno da un forte dispiacere o noi stessi da un senso di colpa>>.

E’ possibile che una persona ci risulti autentica e vera nonostante qualche sua bugia e che un’altra che riteniamo ci dica tutta la verità, ci appaia falsa e incongrua?
<<Sì. Un errore piuttosto comune è quello di confondere le reazioni fisiologiche ed emotive legate allo stress con quelle determinate dalla messa in scena di una bugia. Ecco perché imparare a leggere i segnali di disagio ci consente di scovare emozioni che, a prima vista, sono nascoste e ci evita anche di prendere qualche cantonata>>.

Chiudiamo questa piacevole conversazione in modo leggero. Esiste una quota fisiologica e giornaliera di bugie a cui non possiamo e dobbiamo rinunciare? E ancora, tu da esperta della materia, quante ne racconti?
<<In alcune circostanze provare a non lasciare trasparire i sentimenti personali è una esigenza. Quando la verità nuda e cruda potrebbe ferire gli altri o fare a pugni con la nostra autostima, risultare eccessivamente scortese o addirittura offensiva tanto da intaccare i rapporti, allora forse è bene ricorrere a qualche piccola bugia ritenuta socialmente accettabile. Lo chiamano quieto vivere ma potremmo anche definirla sopravvivenza>>.

Biografia: Scrittrice, giornalista e criminologa, Giusy La Piana é autrice di saggi, testi teatrali, televisivi e musicali. E’ specializzata in Scienze delle comunicazioni, Scienze Criminologiche-forensi, Psicologia investigativa, giudiziaria e penitenziaria e tiene corsi e seminari sulla comunicazione interpersonale. Ha condotto ricerche in pragamatica della comunicazione e su cultura, scrittura e strategie di comunicazione delle organizzazioni criminali. Per Castelvecchi nel 2016 ha pubblicato ‘Fare del male non mi piace. La carriera criminale di Bernardo Provenzano’

‘I saggi sono quei libri che si leggono tenendo in mano una matita per segnare i passaggi salienti’. Non ricordo chi lo disse, ma é vero. ‘La mafia é dappertutto. Falso!’ di Costantino Visconti – editore Laterza, l’ho letto con la matita in mano, ma mi sono accorto subito che avrei dovuto sottolinearne un pò tutte le pagine e allora ho desistito. Invito a leggerlo perché le argomentazioni esposte sono il frutto di studio e analisi rigorosa e perché offrono interessanti spunti per riflettere sulla controversa materia. Ebbene, la mafia non é dappertutto ma c’é eccome. Non é in ogni fatto criminale e non é in ogni associazione a delinquere come in molti vorrebbero farci credere.
"La mafia è dappertutto". Falso! Libro ViscontiE’ un saggio, quello di Costantino Visconti, professore ordinario di Diritto Penale presso l’ateneo palermitano ed esperto tra i più autorevoli, che sfata molti luoghi comuni sulla mafia e che – in modo laico, illuminato e senza alcun pregiudizio, e quindi in modo scientifico – sfida stereotipi sul fenomeno mafioso che alcuni vedono presente dovunque, spesso per interesse o per pigrizia mentale, se non anche per conferire tragicità e interesse a fatti criminosi che, altrimenti, verrebbero declassati, ma anche per attribuire rilievo al proprio ruolo professionale. Se tutto é mafia, allora niente lo é. Affermare che tutto é mafia é un pò fare un favore alla mafia, che può districarsi meglio e sfuggire,, confondersi, mimetizzarsi nel mare magnum del malaffare indistinto e generico.
Visconti invita a usare con precisione e pertinenza il termine, anche per questo, a ‘vigilare ora più che mai per un uso controllato, addirittura parsimonioso, della parola mafia’, non fosse altro che per il fatto che occorre discernere, trovare le differenze, anche perché ‘giudica bene chi bene distingue’.
La mafia vuole passare inosservata, per continuare a gestire i suoi affari e il suo potere e, sottolinea l’autore ‘..se ci rassegniamo a dire che la mafia é dappertutto, finiremo per costruire noi stessi la gabbia inespugnabile dell’illegalità indistinta e quindi invincibile’. La criminalità organizzata viene esaminata nelle sue dinamiche con precisione scientifica, al riparo da tesi precostituite, in una congiuntura nella quale abbiamo assistito al proliferare di fenomeni discutibili, non ultimo quello del professionismo antimafia e della speculazione mediatica. ‘La sfida contro le organizzazioni mafiose é questione troppo importante, vitale – evidenzia Visconti –  per il Mezzogiorno e per l’Italia tutta: non possiamo lasciarla agli arruffapopolo, agli imbonitori telegenici, ai mestieranti o, peggio, a chi ne fa un uso strumentale per fini di parte, anche laidamente personali’.
Al professore Visconti ho posto alcune domande.
Leggendo il suo saggio si ha l’impressione che Lei rivolga un invito a trattare la materia ‘mafia’ con rigore, senza scorciatoie linguistiche o slogan, proprio per combatterla meglio e averne una visione corretta. Un invito a fare uno sforzo culturale e di linguaggio. E’ cosi?

‘E’ indubbio che abbiamo assistito ad una vera e propria inflazione della parola mafia che ha portato inevitabilmente ad una sua inevitabile banalizzazione. E questo é stato un grande errore, perché se tutto é mafia niente é mafia. Se la mafia è dappertutto allora vuol dire che non è in nessun luogo. In molti, per attribuire rilevanza e credibilità a fenomeni criminali, hanno fatto impropriamente ricorso alla parola mafia e tali fenomeni sono stati ritenuti erroneamente mafiosi. In molti hanno visto la mafia anche dove, eccezionalmente, non c’era. Questo ha fatto sì che tutto apparisse mafioso e che la mafia fosse ritenuta presente anche lì dove non c’era. La realtà é che chi, come i giovani della mia generazione, hanno vissuto sulla propria pelle la tragedia della mafia, con le stragi, i morti, il sangue, non può consentirlo, anche e soprattutto per una questione di rispetto nei confronti di chi ha perso familiari, di chi ha dato la vita per combattere la mafia, di chi ha avuto vite segnate dal dolore’.

Professore, nel libro non cita espressamente il fenomeno ‘professionismo antimafia’ se non una volta, scrivendo che ‘lo sport preferito dell’antimafioso di professione é quello di denunciare il complotto dei nemici’. Lei cosa ne pensa: c’é ancora aria di cultura del sospetto?

‘Diciamo subito che il professionismo antimafia, in una prima fase era necessario, direi inevitabile: si era in emergenza, in guerra e servivano professionalità specifiche in grado di utilizzare al meglio gli strumenti e le risorse idonee a contrastare la guerra che la mafia aveva dichiarato. E i risultati di questo impegno antimafioso si sono visti perché il mito della invincibilità della mafia é caduto e questo grazie a questa azione e al sacrificio di tanti. Finita quella fase, occorreva che ognuno ritornasse al proprio ruolo e che la società civile facesse un passo indietro: compito della società civile, a mio parere, é quello di produrre pensiero critico, di sorvegliare e di osservare, di essere coscienza critica. Nella fase dell’emergenza, in quella del sangue che la mafia faceva scorrere per le strade, era inevitabile che ciò accadesse, che la lotta alla mafia diventasse ‘professionismo antimafia’ con tutte le speculazioni e le strumentalizzazioni cui abbiamo, ahimé, assistito. Purtroppo la prassi e il modus operandi del professionismo antimafia e di certi professionisti antimafia si sono poi consolidati, al di là delle sue funzioni e c’é chi vi ha lucrato, approfittandone per motivi personali che nulla avevano a che vedere con l’azione di contrasto alla mafia’.

Lei stigmatizza certo movimentismo antimafia, accusandolo di ignoranza giuridica, perché spesso confonde inchieste giornalistiche, analisi sociologiche e sfera penale. Ce ne parla?
‘La commistione confusa e disordinata di sfere di competenza non aiuta nel contrasto alla mafia. Molti si sono arrogati il diritto e la funzione di fare proclami e lanciare soluzioni, senza averne titolo e creando danni. E’ innegabile che certo movimentismo antimafia, spero in buona fede, abbia occupato spazi e funzioni che non era necessario occupare anche perché lo ha fatto senza avere consapevolezza piena delle dinamiche mafiose e della pervasività stessa della mafia’

Lei non lo dice chiaramente, ma sembra di capire che nel caso dei fatti di corruzione capitolina, nell’affaire Carminati-Buzzi e Comune di Roma, non condivida l’uso della locuzione ‘mafia capitale’. Ebbene, fu vera mafia? Il metodo era proprio quello mafioso come recita il terzo comma del 416 bis o dobbiamo attendere le sentenze?

‘Guardi, quello di aspettare le sentenze – definitive, magari! – dovrebbe essere l’unico metodo in un paese civile, mentre in Italia purtroppo c’è la gara a chi la spara più grossa anche su brandelli di intercettazioni penalmente irrilevanti. In realtà io sono rimasto sgomento non di fronte alla costruzione giuridica dell’imputazione per mafia da parte della magistratura requirente, che anzi considero ben congegnata tecnicamente tanto che ha avuto l’avallo della Cassazione, fatta salva sempre la necessità delle verifica probatoria nel processo vero e proprio, bensì rispetto all’impiego nel discorso pubblico e politico della locuzione “mafia capitale”: ad esempio, come spiego nel libro, invocare perfino lo scioglimento del Comune di Roma per condizionamento mafioso è stata una bestialità da record, giuridicamente insussistente e mediaticamente letale per la reputazione di noi tutti’.

Politica e mafia: lei tratta il concorso esterno in associazione mafiosa, fattispecie di reato controversa, delineandone i rischi ma giustificandone i presupposti. Coloro che vedono la mafia ovunque sono gli stessi per i quali tutta la politica è mafia?

‘Va sicuramente riconosciuto che l’esperienza giudiziaria nel campo dei rapporti tra mafie e politica ha costituito l’epicentro di quello scontro tra giustizialisti e garantisti che ha a lungo imperversato nel nostro Paese e ancora non ci lascia. Non tutta la magistratura è politicizzata e non tutti i politici sono amici dei mafiosi, ma c’è chi continua a sostenere l’una o l’altra tesi in modo strumentale. Se tutta la politica è mafia allora niente è mafia. Vale anche in questo ambito. Il concorso esterno in associazione mafiosa è un reato che è i suoi motivi di esistere ma è innegabile che la sua applicazione, la sua individuazione, ha creato spesso equivoci e problemi. La mafia – è un fatto- ha cercato la politica e certi politici si sono fatti trovare dalla mafia, cooperando con essa. Da qui a definire mafiosa tutta la politica, soprattutto quella che è espressione di certi territori, ce ne passa’.

Populismo nel movimento antimafia: é un rischio per la vera giustizia e per una efficace azione di contrasto al crimine organizzato?

‘Nel corso del tempo il populismo ha cominciato a impadronirsi anche del movimento antimafia. Riflessione poca, semplificazione moltissima. Vogliamo combattere i rapporti mafia-politica? Allora manette a manetta per tutti’ come scrivo nel libro. Gli antimafiosi populisti hanno fatto, inconsapevolmente, un grande favore alla criminalità organizzata, perché ciò che serve a distinguere, individuare responsabilità precise, e non fare di tutta l’erba un fascio, perché questo è proprio ciò che la mafia vuole: se tutto è mafia e tutti sono mafiosi, niente è mafia e nessuno è mafioso’.

Lei cita l’espressione ‘toghe telegeniche’, non mancando di evidenziare le responsabilità di certa magistratura narcisista che indulge al protagonismo e che rischia di invadere campi che non le sono propri. Esempi?

‘Ci sono molti modi di interpretare la funzione giudiziaria e sicuramente il magistrato, soprattutto il pubblico ministero, che va alla ricerca dei riflettori e delle telecamere e che si sente investito di una missione salvifica mi terrorizza. Il magistrato non può allontanarsi, nella forma e nella sostanza, dalle doti di equilibrio, di equidistanza, di sobrietà e deve essere percepito così dai cittadini. Ecco, Le confesso che quando ho usato quell’espressione, avevo in testa Piercamillo Davigo: per quel che dice e scrive, a volte riflette un modello di giustizia penale che io stento a considerare compatibile con i valori della nostra Costituzione. Una volta, in un’intervista che fece scalpore, paragonò gli imputati alle prede per un cacciatore nella savana: se lo dicesse un mio studente mi sentirei morire perché avrei fallito come professore. Spesso lo vedo in televisione e con un certa preoccupazione riscontro in lui una spiccata attitudine alla battuta facile, alla semplificazione sloganistica, e mai un approfondimento serio sulle questioni dolorose della giustizia penale. Ora ha addirittura pubblicato un libro insieme a un suo collega che già dalla copertina è tutto un programma, visto che rivendica il “giustizialismo” come tratto caratterizzante del suo modo di vedere le cose. Se penso che ha ricoperto la carica di Presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati….’

La responsabilità dei mass media nel resoconto dei fatti di mafia: sensazionalismo, precisione, mitizzazione dei personaggi mafiosi.

‘Il ruolo della stampa e dell’informazione è di grande importanza, perché serve alla formazione di quella coscienza critica e contribuisce alla sensibilizzazione su tematiche utili alla azione di contrasto alle mafie. Ma, come tutti i poteri, ha onori e oneri: ha anche una grande responsabilità, soprattutto nel trattare argomenti come quello ‘mafioso’ che richiede competenza e precisione, evitando sensazionalismi e genericità’.

Il suo libro si conclude con un messaggio di speranza, soprattutto laddove riusciremo a coniugare – ognuno nel proprio ambito – nell’azione di contrasto alla mafia, studio e ragionamento. Un invito a non lasciarci trasportare da facili entusiasmi o da atavico e pessimista fatalismo?

‘Come ho detto prima, il mito della invincibilità della mafia non esiste più: è stato demolito dai processi celebrati in tutta Italia negli ultimi vent’anni e dai numerosi boss che scontano pene durissime senza la prospettiva di riprendersi un giorno la libertà. Abbiamo motivo per essere ottimisti ma senza che ciò comporti un abbassamento della guardia. Alla fine del libro rivolgo un invito alla speranza e al confronto, al dialogo tra le persone. I fanatismi non solo non servono a nulla ma sono dannosi. Chi la pensa in modo diverso da noi va rispettato, sempre e comunque. Occorre pensiero critico e cultura. Il diritto penale é farmaco ma anche veleno e da solo non risolve nulla: serve anche altro, e soprattutto la politica. Il diritto penale non ha funzioni pedagogiche. E’ un male necessario a cui vanno affiancati altri strumenti. Ci sono tanti motivi per essere fiduciosi e per continuare a svolgere il nostro ruolo con onestà, affidando il testimone di questo impegno ai nostri figli. E francamente rimango di stucco quando apprendo che un recente sondaggio tra gli studenti palermitani effettuato nelle scuole, ha rivelato che la maggior parte di loro considera a tutt’oggi la mafia più forte dello Stato. Le cose sono due: o il sondaggio è sballato, oppure la mia generazione ha una responsabilità gravissima. Quella, cioè, di non aver saputo raccontare il nostro recente passato che è fatto sì di terribili e indimenticabili sconfitte ma anche di una poderosa inversione di tendenza grazie alla quale oggi possiamo dire certamente che siamo più forti noi, non i mafiosi ”
Alfonso Lo Sardo

Interesse privato in atti d’ufficio. Un tempo era un reato ma sono contento che sia stato abolito. In questo caso mi sarebbe stato contestato con certezza. Sì, perché questa intervista a Ugo Barbàra nasce dalla lettura di un bellissimo suo libro – ‘Desidero informarla che le abbiamo trovato un cuore” – e dal desiderio di leggere al piu’ presto gli altri, oltre ad altri piccoli particolari, come quello di essere coetanei (1969, annata magica), avere frequentato lo stesso liceo (Umberto I di Palermo) e di essere un suo collega. Ecco, ora che ho spiegato il contesto da cui nasce questa breve e simpatica intervista, spero mi concederete le attenuanti generiche. Aggiungo solo che Ugo Barbàra é una persona squisita, dalla gentilezza autentica e che vi esorto a leggerlo, qui sotto e nei suoi libri.

Qual è il libro più bello che ha mai letto? Esiste forse una domanda piu’ stupida di questa? No. È proprio per questo che Le chiediamo: quali sono i suoi tre libri preferiti e perché?

‘Piccola premessa: non è affatto una domanda stupida. Io, ad esempio, non riesco a impedirmi di giudicare le persone (anche) in base al fatto che gli sia piaciuto o meno ‘La versione di Barney’. Poi questa cosa dei libri più belli va strettamente correlata al momento in cui vengono letti. Ma voglio accettare la sfida e mi lancio: ‘Cent’anni di solitudine’; ‘Uomini e topi’ e, per l’appunto, ‘La versione di Barney’.

Lei è uno scrittore e un giornalista. Qual è il suo giudizio sul nostro Paese, da entrambe le prospettive? Cosa c’è’ ancora di poetico in Italia e cosa di prosaico?
‘Nei momenti peggiori, quelli in cui arrivo a pensare che questo Paese è spacciato, che non c’è più speranza, che è corrotto fin nel midollo e che l’unica cosa possibile è fuggire, Roma mi regala una di quelle giornate in cui il cielo si tinge di un blu che non esiste da nessuna altra parte e ogni angolo della città si immerge in un colore che nessun filtro fotografico potrebbe rendere più incantato e incantevole. Ecco, è in quel momento che scopro che tutta la bellezza che ci circonda può rendere poetica anche la realtà più prosaica’.

Da siciliano che ha deciso di vivere a Roma, la Sicilia appare sempre una terra irredimibile o vi è qualche speranza?

Nessun luogo è perduto finché non è perduta la gente che lo abita. Sta solo ai siciliani decidere cosa fare del loro futuro e di quello della Sicilia. Io, però, ho scelto di non fare parte della partita. Mi è stato rinfacciato più volte, ma ormai ho passato più anni lontano che nella terra in cui sono nato e mi sembra una polemica sterile quanto quella sulla fuga dei cervelli’.

Nel suo libro ‘Il corruttore’ Vittorio Tanlongo, avvocato senza scrupoli, deve fronteggiare l’incorruttibile Ruggero Pietrasanta. Quali sono le responsabilità della cultura e degli intellettuali dinnanzi al dilagante fenomeno delle bustarelle nel nostro Paese?

‘Non mitizziamo le figure degli intellettuali. Sono corruttibili e in vendita tanto – e forse più – di amministratori e politicanti vari. Non ho una passione per i tribuni del popolo che poi pensano solo ai propri interessi. Nessuno ha un ruolo più impegnativo di qualcun altro. Ognuno è chiamato a fare la propria parte, senza aspettare esempi di seguire e bandiere dietro le quali schierarsi’.

Nel racconto quotidiano e in tempo reale di ciò’ che accade, quali sono i meriti del giornalismo di oggi e quali i suoi demeriti?

‘Il merito principale del giornalismo è di non essere cambiato. Ma è anche il suo demerito e può essere la sua condanna, Si parla tanto di giornalismo partecipativo, di citizen journalism, ma chi crede che non ci sia più bisogno di un mediatore tra l’informazione e il pubblico prende un enorme abbaglio. E altrettanto sbaglia chi pensa che il giornalista e il giornalismo, per riaccreditarsi di fronte a lettori, ascoltatori e spettatori, non abbia bisogno di recuperare una funzione aspramente critica. Il giornalismo deve cambiare per tornare a essere se stesso, non per inseguire mode e mercati ai quali ha già dimostrato di non riuscire a star dietro né a tenere testa’.

Giornalismo e social media: è un abbraccio mortale?

‘Assolutamente. Specie se si considera che il grosso dei lettori afferma di informarsi attraverso i social network, ma spesso non sa distinguere tra una testata credibile (accreditata, se vogliamo usare questa orribile parola) e lercio.it

Violenza sulle donne e rigurgiti maschilisti, xenofobia e razzismo: che tempi ci attendono? Politica inadeguata e sorda. Cosa ci può salvare? Su cosa scommettere?

Una società in crisi cerca di ricostruirsi una identità nel modo più facile e veloce: con la violenza. Verbale, fisica, psicologica: non importa in quale forma. Ma non possiamo pensare di affrontare questi temi se prima non troviamo una vera via d’uscita da una crisi che – sembra una banalità, ma è una banale verità – è di valori prima ancora che economica.

Librerie e biblioteche: che luoghi sono diventati? È corretto definirli ‘non luoghi’, parafrasando Auge’?

‘Sono Luoghi con la ‘l’ maiuscola più di quanto non lo siano mai stati. Ma le librerie vere – quelle indipendenti, con librai e non semplici commessi – e le biblioteche dei piccoli centri e di quartiere – non quei marasmi che sono le centrali che diventano castelli kafkiani in cui l’essenza si perde come un buon profumo in una latrina.

Chi dovrebbe vincere il prossimo Nobel per la Letteratura?

J.K. Rowling: una scrittrice che in dieci anni ha fatto per la lettura più di quanto siano stati capaci di fare letteratura e letterati in cinquant’anni.

Ugo Barbàra, giornalista e scrittore, é nato a Palermo il 21 ottobre 1969. Dirige la redazione New Media dell’Agenzia Giornalistica Italiana. Dal 1999 al 2010 si è occupato di politica estera. In precedenza è stato corrispondente da Palermo negli anni del processo Andreotti (1995 -1999), nonché redattore di cronaca giudiziaria a Roma all’epoca di Tangentopoli. Ha frequentato l’Ifg di Urbino e si è laureato in Lettere Moderne all’Università di Palermo. Ha insegnato scrittura creativa all’Università La Sapienza di Roma e a Roma Tre. Ha scritto sei romanzi. Cinque sono stati pubblicati da Piemme: “Desidero informarla che le abbiamo trovato un cuore” (1999); “La notte dei sospetti” (2001); “Il corruttore” (2008) e “In terra consacrata” (2009) e “Le mani sugli occhi” (2011). Il sesto è “Due Madri” pubblicato nel 2015 da Frassinelli. Suoi i racconti “La stiratrice di Saponara” pubblicato nella raccolta “La scelta” edito da Novantacento; il racconto “Il nemico” inserito nella raccolta “Duri a morire” di Dario Flaccovio editore e “L’avaro” che fa parte della antologia “Seven” curata da Gian Franco Orsi per Piemme. È sceneggiatore del film Gli angeli di Borsellino insieme a Paolo Zucca, Mirco Da Lio e Massimo Di Martino. Nel 1999 il Teatro Libero di Palermo ha portato in scena il suo “Dongiovanni” per la regia di Lia Chiappara.

Salvo Guercio con le sorelle Kessler
Salvo Guercio con le sorelle Kessler

In Italia siamo tutti esperti di calcio e di tv, tutti allenatori e critici televisivi. Molti di noi, ovviamente, non sono né l’uno né l’altro. Ci lamentiamo dei programmi definiti trash ma, di nascosto, li seguiamo. Salvo Guercio, palermitano, è unanimemente riconosciuto tra gli autori televisivi piu’ capaci e lungimiranti. Parla di ciò che conosce, e si vede subito. 10notizie ha il piacere di esordire nello spazio delle interviste, con la sua.

Si parla sempre più spesso della funzione dell’autore televisivo. Qual è esattamente il vostro ruolo?

‘Strutturare una puntata di un programma televisivo non è semplice, come può apparire a chi fruisce del programma a casa, seduto in poltrona. Innanzitutto devi decidere come e cosa vuoi raccontare. Nel caso specifico di un programma di intrattenimento – questo è ciò di cui mi occupo – devi innanzitutto scegliere, con i colleghi e con l’azienda che commissiona il programma, a chi farlo presentare. Quindi devi adattare la cifra stilistica di ciò che vuoi scrivere o raccontare, alla personalità del conduttore. Un esempio: ho lavorato dieci anni con Pippo Baudo, e non potevo certo prescindere dalla sua personalità, forte e talvolta ingombrante, ma con uno stile personale immediatamente riconoscibile’.
….e dopo questa prima fase?
‘Si procede dunque con la scrittura del programma, decidendo gli ospiti, i brani musicali e i numeri di varietà, e cercando di creare una struttura narrativa e drammaturgica unitaria in cui tutto appaia legato, e strutturando a tal scopo una scaletta in cui si compongano opportunamente in sequenza i vari momenti del racconto. Infine, dopo aver costituito l’ossatura, la struttura, si procede alla scrittura dei testi e degli snodi tra un numero e l’altro, e si decidono gli eventuali filmati da trasmettere (nel mio caso preferisco montare ogni singolo filmato personalmente), e si decide come “vestire” insieme al regista le canzoni ed i balletti’.
Che momento vive oggi la televisione italiana? Ci sono nuove idee, nuovi format? In quale direzione ci si muove? È corretto ancora oggi affermare che quella italiana è una TV superiore a molte altre sotto il profilo della qualità?
‘Oggi purtroppo la TV italiana vive, a mio parere, un momento di crisi, specie per quanto riguarda i programmi di intrattenimento. Troppi i format acquistati all’estero e pochi i programmi originali pensati e ideati da noi autori. C’è poca voglia di rischiare e l’offerta è numerosissima, anche a causa del proliferare dei canali, tematici e non solo. Per questo la qualità, ovviamente, è scesa in modo notevole: non molto tempo fa, per preparare un programma si impiegavano mesi, si provava e si riprovava, finchè la macchina non era perfettamente rodata. C’erano pochi canali e tutte le energie venivano convogliate nella realizzazione di pochi prodotti di ottima qualità. Oggi il tempo a disposizione è poco, i mezzi non sono più quelli di una volta, si prova uno o due giorni se va bene. A cio’ si deve aggiungere che anni e anni di lottizzazione spesso ti costringono a confrontarti con referenti che non sempre hanno la conoscenza del mezzo e la capacità di gestirlo’.

La Tv si vede in streaming su Tablet e smartphone, con collegamenti vari e rapidi. E ormai non c’è programma che non sia collegato ai social network, proprio mentre è in onda. Questo nuovo approccio alla televisione ha cambiato qualcosa per voi autori?
‘La conseguenza é che ci possono criticare con più ferocia e in tempo reale! ( e qui Guercio ride…). C’è una maggiore velocità nella fruizione del prodotto e anche noi che lo strutturiamo non possiamo prescinderne. I tempi sono cambiati, i ritmi dei programmi di intrattenimento sono cambiati. Basta guardare Milleluci, Canzonissima o Studio Uno e confrontarli con i varietà di oggi per rendersene conto. Attenzione: non sto proponendo una visione passatista del mezzo; il ritmo mi piace e cerco di mantenerlo quando preparo un programma. L’importante è tenere alto il livello del racconto e conservare un minimo di approfondimento, per non trasformare il programma in una sequela forsennata di proposte ritmate ma superficiali e prive di spessore’.

La nuova TV è rivolta ai ‘pubblici’ piuttosto che ad un pubblico. Spettatori che ormai acquistano ciò che desiderano vedere. È la TV on demand. Questo può cambiare in peggio in termini di offerta qualitativa?
‘L’eccessiva offerta, come ho detto prima, ha abbassato la qualità, Si è diffusa l’errata convinzione, anche attraverso l’uso spropositato dei social, che tutti possono fare tutto e anche i nostri cachet si sono abbassati parecchio ( e in questo caso Salvo Guercio fa un sorriso tra l’amaro e il divertito). Arriva uno che fa la stessa cosa che fai tu a un costo molto inferiore e senza l’adeguata preparazione culturale, ma va bene uguale – secondo alcuni – tanto non se ne accorge nessuno. E invece c’è un pubblico per nulla distratto, che rivela attenzione e sensibilità. Devo comunque constatare che il livello della cultura popolare del nostro paese continua a scendere. E’ drammatico, é una cruda verità, lo so, ma questa è la situazione attuale’.

Crisi dei talk show: se ne parla da qualche anno. Quali sono i motivi?
‘La gente è stanca di parole. Vuole fatti. O, in assenza di essi, vuole sognare ed evadere dai problemi di tutti i giorni con uno show ben fatto come quelli di Fiorello’.

In Italia, come all’estero, la televisione risulta ancora il mezzo più utilizzato dai cittadini per informarsi, secondo la relazione annuale diffusa da Agcom nel 2015. Secondo Lei c’è pluralismo informativo nel nostro Paese?
‘No’.

Informazione TV, infotainment: è un binomio ancora vincente?

‘Io credo molto nell’infotainment. E’ il futuro dell’intrattenimento in TV. La gente vuole appassionarsi a un racconto, vuole che gli si spieghi quello che sta vedendo, vuole imparare, vuole conoscere. Gli fai ascoltare Mia Martini? Vuole conoscere e scoprire cosa c’è dietro Mia Martini, dietro la sua storia bella e tormentata. Gli fai vedere la Carrà che canta “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù”? Va benissimo, ma gli devi raccontare anche che quella sigla andava in onda nei giorni del sequestro Moro, che la Carrà voleva che la RAI sospendesse il programma e che non le fu concesso, devi fargli vedere il brano tratto da “Buongiorno notte” di Bellocchio in cui i rapitori di Moro nel covo di via Montalcini guardano la Carrà proprio in quel programma, mentre nella stanza accanto Moro trascorre i suoi ultimi giorni. Si può intrattenere e raccontare, puoi fare cultura anche con il varietà, non è necessario per forza mettere contro ‘grassi contro magri’ in un’arena di urla e strepiti, mentre la telecamera indugia per 40 secondi sul sedere di una sedicente Madre Natura che sale le scale…'(il riferimento a Ciao Darwin, il programma televisivo di Paolo Bonolis e Luca Laurenti, su Canale 5)

 

Salvo Guercio (Palermo, 1º gennaio 1969) è un autore televisivo italiano. Ha inziato come programmista e regista di clip musicali per Rai 1 nel 1994. Il suo primo programma come autore è Cocktail d’amore su Rai 2 (2001/2003): una rivisitazione in chiave ironica degli anni settanta e ottanta. Programma del quale è anche l’ideatore. Con questa trasmissione, voluta da Carlo Freccero e firmata insieme a Marco Giusti, Guercio di fatto ha rilanciato la carriera di Amanda Lear. Successivamente è autore di diversi programmi con Mike Bongiorno, Milly Carlucci, Paolo Limiti, Mike Bongiorno, Mara Venier. Lavora per diversi anni con Pippo Baudo, con il quale firma diverse edizioni di “Domenica in”. Attualmente collabora con Massimo Giletti per la realizzazione dei suoi speciali serali e per una serie di puntate speciali dell'”Arena”.