Israele

Secondo fonti della Farnesina “Non c’e’ alcun accordo con l’Italia nell’ambito del patto bilaterale tra Israele e l’Unhcr per la ricollocazione, in cinque anni, dei migranti che vanno in Israele dall’Africa e che Israele si è impegnata a non respingere”. La risposta giunge dopo che Benjamin Netanyahu ha annunciato la sospensione dell’intesa con l’Alto commissariato dell’Onu per il ricollocamento in Paesi occidentali di migliaia di migranti africani che sono in Israele. In nottata il premier aveva reso noto su Facebook di essere sensibile alle critiche mosse dagli abitanti dei rioni poveri di Tel Aviv che vedono la concentrazione di migranti. Ma pressionin, secondo i media, sono giunte anche da esponenti del Likud, il partito di Netanyahu, e dal partito nazionalista Focolare ebraico. L’accordo riguarda complessivamente 16.250 migranti eritrei e sudanesi, di cui 6.000 nel primo anno. Italia, Germania, Canada sono alcune delle destinazioni che indicate dal premier israeliano per la ricollocazione dei migranti.

“E’ una dichiarazione di guerra”. Così l’amministrazione palestinese ha reagito al voto con il quale i deputati israeliani hanno cambiato la legge su Gerusalemme, rendendo più difficile la sua divisione nell’eventualità di un accordo di pace. L’emendamento è stato approvato dalla Knesset alle prime ore del mattino, con 64 voti favorevoli e 51 contrari, riferiscono i media israeliani. La legge su Gerusalemme, originariamente approvata nel 1980, vieta di cedere parte del territorio della città santa ad entità straniere, compreso un futuro stato palestinese. Fino a ieri bastava però una maggioranza di 61 voti sui 120 della Knesset per abolire questa prescrizione. Ora servirà invece una maggioranza qualificata di 80 voti, molto difficile da raggiungere. Proposta dal partito di governo Focolare Ebraico, con l’appoggio degli altri membri della coalizione guidata da Benyamin Netanyahu, la legge ha subito provocato una dura reazione da parte palestinese. Il voto della Knesset su Gerusalemme “equivale ad una dichiarazione di guerra contro il popolo palestinese e la sua identità politica e religiosa”, ha dichiarato Nabil Abu Rudeineh, portavoce del leader palestinese Mahmoud Abbas, citato dall’agenzia Wafa.

Il Likud, partito del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha fissato per martedi’ prossimo la votazione di un documento che ribadisce l’opposizione della formazione politica alla creazione di uno Stato arabo palestinese, e sollecita invece l’esplorazione di “alternative” alla cosiddetta “soluzione a due Stati”. Il quotidiano “Jerusalem Post” ricorda la posizione ambivalente di Netanyahu sulla questione: nel 2002 su proprio l’attuale premier a promuovere una simile risoluzione contraria ad uno Stato palestinese, bocciata per l’opposizione del primo ministro e segretario di partito di allora, Ariel Sharon. Nel 2009, invece, Sharon appoggio’ pubblicamente la soluzione a due Stati durante un discorso tenuto presso l’Universita’ di Bar-Ilan. Ad avanzare una proposta simile a quella del 2002 e’ stato Shevah Stern, responsabile della sede regionale di partito di Mateh Binyamin, in risposta all’uccisione di tre cittadini israeliani in Cisgiodania, lo scorso fine settimana. Per Netanyahu, impegnato a discutere il riavvio dei negoziati israelo-palestinesi col presidente Usa Donald Trump, e alle prese con lo scandalo dell’acquisto dei sottomarini dalla Germania, l’iniziativa costituisce un grave grattacapo. “Non sto cercando di creare problemi al primo ministro”, ha dichiarato a questo proposito Stern. “Non vogliamo agire contro il primo ministro, ma vogliamo esercitare un’influenza su di lui e su altri ministri affinche’ seguano la linea del Likud, che e’ contrario a uno Stato palestinese”.

Nella Guerra dei 6 giorni nel giugno del 1967 Israele avrebbe potuto usare la bomba atomica nel Sinai per dissuadere l’Egitto di Nasser ed evitare una possibile sconfitta. La rivelazione, anticipata dai media israeliani e accolta con un certo scetticismo, è contenuta in un articolo del New York Times di oggi, che si basa su un’intervista dello scienziato nucleare Avner Cohen al generale in pensione Itzhak Yaakov, morto nel 2013, che allora supervisionò il piano detto “Samson”, o anche “Giorno del Giudizio”. Gli elicotteri avrebbero dovuto sganciare un ordigno nucleare in cima a una montagna a 18 chilometri da una base militare egiziana, situata ad Abu Ageila. L’operazione non avvenne. La vittoria di Israele sull’Egitto rese inutile il presunto intervento.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è sotto inchiesta per corruzione, una vicenda che potrebbe allontanarlo dal potere, ma il quattro volte capo del governo ha già superato problemi giudiziari in passato e resta una figura chiave nella politica israeliana. Ieri sera la polizia ha interrogato Netanyahu per oltre tre ore presso la sua residenza ufficiale di Gerusalemme su regali per decine di migliaia di dollari ricevuti da sostenitori abbienti. Un’inchiesta è in corso da mesi, ma ora si è trasformata in un’indagine penale vera e propria e la notizia dell’interrogatorio ha scosso la scena politica israeliana, dando la stura a speculazioni su un prossimo abbandono del premier. Lo stesso Netanyahu ieri ha detto ai suoi oppositori di non “festeggiare”, ribadendo che “non ci sarà nulla perchè non c’è nulla”. Ma per qualche analista le accuse di oggi sono un po’ più concrete di quelle del passato. “Le ultime due volte in cui si è trovato in una situazione del genere ha tentato di dire ‘ve la prendete con mia moglie, ve la prendete con la mia vita privata, è un modo illegale di rovesciare i risultati delle elezioni'” ha detto Gayil Talshir, professore di scienze politiche all’università ebraica di Gerusalemme all’Afp. “Penso che anche stavolta la strategia sarà la stessa, ma il caso è più grave”. Non si sa quasi nulla dell’indagine promossa dal procuratore generale Avichai Mandelblit, che ha confermato che Netanyahu ha ricevuto “regali da imprenditori”, ma non ha dato dettagli.

La reazione del governo israeliano alla risoluzione di condanna della politica degli insediamenti ebraici in Cisgiordania da parte del Consiglio di sicurezza Onu prova a quale punto sia giunta la frattura tra quel paese e la comunita’ internazionale in merito ai territori arabo-palestinesi occupati, scrive il settimanale statunitense “Time”. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, insiste nel sostenere che non ci sia nulla di sbagliato nell’edificazione di insediamenti in alcune delle aree occupate dopo la Guerra dei sei giorni (1967); la risoluzione numero 2334, approvata lo scorso 23 dicembre dal Consiglio di sicurezza con il cruciale avvallo degli Stati Uniti – che non hanno fatto ricorso al veto – getta pero’ Gerusalemme in uno stato di isolamento politico assoluto, prosegue il settimanale. Le relazioni tra Israele e il suo fondamentale alleato, gli Stati Uniti, non hanno fatto che peggiorare durante gli otto anni di amministrazione del presidente Usa uscente, Barack Obama. Negli ultimi mesi ha opposto alla politica degli insediamenti un’opposizione sempre piu’ dura e rumorosa, sino ad arrivare ad una condanna aperta. E’ palese – scrive il periodico “Time” – che tra Netanyahu e Obama e’ in corso uno scontro personale, prima ancora che politico. Lo provano i durissimi commenti diffusi dal premier israeliano dopo l’approvazione della risoluzione: “Dalle informazioni a nostra disposizione, non abbiamo alcun dubbio che l’amministrazione Obama abbia dato inizio all’iniziativa, l’abbia sostenuta, coordinata e abbia preteso la sua approvazione”, ha accusato Netanyahu domenica di fronte al suo gabinetto di governo. L’attacco personale a Obama – sostiene il settimanale – serve anche a Netanyahu per mascherare il fatto che la risoluzione contro gli insediamenti e’ stata approvata da molti altri paesi con cui il premier israeliano intrattiene relazioni politiche sempre piu’ strette, come Russia e Cina. “Questo e’ lo stesso primo ministro che ci assicurava che dozzine di Stati erano dalla nostra parte”, ha infatti dichiarato all’emittente televisiva Channel 2 Tv l’ex premier israeliano Ehud Barak. “Ho cercato la Russia, la Cina, l’Inghilterra, la Francia. Dov’erano tutti questi nostri supposti amici, quando avrebbero dovuto sostenerci?”. L’approvazione della risoluzione numero 2334 rappresenta insomma, secondo il “Time”, una vera e propria umiliazione per Netanyahu, che ha sempre sminuito la rilevanza delle critiche alla politica degli insediamenti mosse dalla comunita’ internazionale. La risoluzione approvata venerdi’ scorso dalle maggiori potenze mondiali mette nero su bianco che gli insediamenti “non hanno alcuna legittimita’ giuridica” e costituiscono anzi una flagrante violazione” del diritto internazionale. Si tratta certo di un documento simbolico, privo di alcuna sanzione o misura concreta ai danni di Israele. Tel Aviv, pero’, potrebbe subire presto altri “smacchi”: il 15 gennaio, pochi giorni prima della fine del secondo ed ultimo mandato di Obama alla Casa Bianca, la Francia ospitera’ una conferenza di dozzine di paesi mediorientali e non, con l’obiettivo di lanciare un piano di pace tra israeliani e palestinesi sulla base del principio di due Stati per due nazioni, entro i confini politici del 1967. A Netanyahu non resta che attendere l’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump: il presidente statunitense eletto ha nominato ambasciatore in Israele l’avvocato David Friedman, sostenitore politico ed economico degli insediamenti in Cisgiordania. Ed ha promesso che a partire dal 20 gennaio “le cose saranno differenti”. Non e’ chiaro pero’ cosa Trump possa fare, conclude il “Time”: il presidente eletto avra’ certo a disposizione il potere di veto per bloccare nuove risoluzioni “anti-Israele” all’Onu. Ma non potra’ in alcun modo ribaltare la risoluzione di condanna approvata venerdi’.

“Desidero esprimere pieno sostegno al Governo di Gerusalemme e al Primo Ministro Netanyahu, dopo la risoluzione chiaramente anti-israeliana approvata all’Onu, che rischia di essere fonte di lunghi conflitti e duri contenziosi, temo non solo diplomatici”. Lo dichiara Daniele Capezzone, deputato Conservatori e Riformisti. “La reazione del Primo Ministro israeliano Netanyahu (convocazione degli ambasciatori, proteste formali, ecc) è assolutamente giustificata e ragionevole”, aggiunge, osservando che “dal presidente Obama è purtroppo venuto un colpo di coda che non fa onore agli Stati Uniti. Gli errori in politica estera della presidenza Obama sono stati molti, a partire dal credito concesso al regime iraniano. Ora si aggiunge, nel finale di partita, questo incredibile schiaffo a Israele. Una ragione di più per confidare in una inversione di rotta, dal 20 gennaio prossimo, con la nuova amministrazione Trump”.

Prime ritorsioni di Israele alla risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro gli insediamenti ebraici nei territori palestinesi. Il premier Benjamin Netanyahu ha richiamato i suoi ambasciatori in Nuova Zelanda e Senegal e ha sospeso la visita del ministro degli Esteri senegalese: entrambi i Paesi, insieme a Venezuela e Malesia, hanno sostenuto la risoluzione, approvata ieri grazie alla storica astensione degli Stati Uniti che non avveniva dal 1981 nel contesto del conflitto arabo-palestinese. La visita del capo della diplomazia senegalese, Mankeur Ndiaye, era prevista per gennaio. Secondo fonti del governo israeliano, il premier ha ordinato anche la sospensione di tutti gli aiuti umanitari e della cooperazione con il Senegal. Le fonti hanno confermato che si tratta di una prima reazione all’iniziativa dei due Paesi nel voler ripresentare il testo ritirato il giorno prima dall’Egitto su pressioni di Israele e del presidente eletto Usa, Donald Trump. Con Caracas e Kuala Lampur Tel Aviv non ha relazioni diplomatiche.
La risoluzione, che ha provocato l’indignazione di Netanyahu, soprattutto perché gli Stati Uniti hanno abbandonato la loro tradizionale politica del veto, è stata approvata con 14 voti a favore, nessun contrario e un’astensione. Il testo chiede la cessazione “immediata” e “piena” degli insediamenti ebraici nei territori occupati palestinesi e insiste sul fatto che la soluzione del conflitto in Medioriente richiede la creazione di uno Stato palestinese accanto a quello israeliano. Al momento, confermano le fonti, non è prevista per oggi (in Israele è la giornata dello shabbat, la festa del riposo, che è osservata ogni sabato) nessuna riunione di emergenza del Consiglio dei ministri, che di solito si tiene la domenica mattina. Di fronte alle gravi condanne della destra nazionalista verso il presidente Barack Obama e alle critiche dei politici di centrosinistra verso Netanyahu, colpevole di aver portato al voto dell’Onu con la sua politica delle colonie, gli analisti sono divisi sull’impatto reale della risoluzione. Per Barak Ravid, del quotidiano Haaretz, si tratta di una decisione “senza oneri effettivi”, dato che è stata approvata senza prevedere meccanismi sanzionatori e, soprattutto, a corto e medio tempo non rischia di diventare una “risoluzione dichiarativa”. Aluf Ben, capo redattore dello stesso quotidiano, si distanzia dal collega e avverte che la destra nazionalista israeliana richiederà ora “fatti concreti sul terreno” e rilancerà la politica delle colonie, che Netanyahu stava mantenendo latente su pressione di Washington. Dal lato palestinese la soddisfazione è oggi generalizzata dopo anni di intenso lavoro diplomatico che ha dato i frutti proprio quando Obama sta per lasciare la Casa Bianca e sarà sostituito il 20 gennaio da Donald Trump, che da subito sembra essere molto più vicino alle posizioni di Netanyahu. Il presidente palestinese, Mahmmud Abbas e il segretario generale dell’Old, Saeb Erkat, considerano il voto uno “schiaffo” per Israele e sostengono che la soluzione dei due Stati non sia morta del tutto. Per il governo dell’Autorità nazionale palestinese, guidato dal premier Rami Hamdala, si tratta di un “risultato storico”, “una grande vittoria per i diritti dei palestinesi”, secondo quanto ha detto il suo portavoce Yusuf Mahmoud attraverso l’agenzia ufficiale Wafa. “La decisione segna un importante e storico traguardo per sostenere e consolidare le fondamenta della pace nella regione, porre fine all’occupazione e raggiungere la piena sovranità su tutti i territori palestinesi occupati nel 1967 con capitale Gerusalemme Est”, ha ribadito. Anche i movimenti islamisti Hamas e Jihas islamica, che rifiutano ogni possibilità di pace con Israele, hanno accolto con favore la risoluzione considerandola “un cambiamento nella politica della comunità internazionale. “Hamas dà il benvenuto a questa risoluzione e si rallegra per i cambiamenti positivi nella posizione della comunità internazionale che appoggia i diritti palestinesi negli organismi internazionali”, ha dichiarato in una nota il suo portavoce, Fauzi Barhum. Allo stesso tempo però Hamas esorta la comunità internazionale a fare di più a favore della causa palestinese e a porre fine all’occupazione israeliana.

Stefano Parisi, nel corso di una visita in Israele, ha incontrato alcuni leader politici della maggioranza e dell’opposizione e membri del governo. Con loro ha discusso della situazione in Medioriente, dell’evoluzione politica interna israeliana e ha potuto illustrare il suo programma di rigenerazione del centrodestra italiano. Gli incontri sono avvenuti alla Knesset, il Parlamento Israeliano, nel giorno del suo insediamento dopo la pausa festiva. Tra i temi affrontati anche che il referendum e la situazione politica italiana, nonché la sua evoluzione a seguito dell’esito referendario del 4 dicembre.

E’ disposto a “discutere di confini” con Israele, partendo dalla spartizione Onu del 1947, e per superare lo stallo negoziale c’e’ apertura “anche a possibili passi da parte dell’Italia”. Lo afferma in un’intervista al direttore della Stampa e a Repubblica il presidente dell’Autorita’ nazionale palestinese, Abu Mazen, che oggi riceve a Betlemme il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Sul fronte negoziale ci sono tre iniziative sul tavolo: “La proposta della Lega Araba e’ quella piu’ importante”, spiega Abu Mazen alla Stampa. “Prevede il riconoscimento di Israele da parte di 58 Paesi arabi e musulmani se porranno fine all’occupazione”. “Riguardo alla Russia, quando il presidente Vladimir Putin ci ha invitato a Mosca io sono andato mentre il premier israeliano Benjamin Netanyahu non si e’ presentato. La proposta migliore e’ tuttavia, a mio avviso, quella francese (una conferenza internazionale, ndr) perche’ ha una natura internazionale come quella che ha portato all’accordo con l’Iran sul programma nucleare”. “Noi siamo per i due Stati, per la pace, contro la violenza armata”. “L’Italia ci da’ un importante contributo per il sostegno economico al nostro Stato”, “il vostro Parlamento si e’ detto a favore del riconoscimento della Palestina e dunque ci aspettiamo che il governo di Matteo Renzi lo faccia. Con Renzi i rapporti sono ottimi e se l’Italia dovesse avanzare una sua iniziativa per arrivare alla conclusione dell’occupazione e del conflitto, la prenderemo molto seriamente”. “Noi riteniamo che Gerusalemme appartenga a tutte e tre le grandi religioni: islam, cristianesimo ed ebraismo. Non capisco in verita’ tutto lo scalpore causato dal voto dell’Unesco perche’ non si e’ trattato di una risoluzione di tipo politico, il testo ha trattato solo alcuni aspetti archeologici”. “Noi diciamo niente Stato palestinese senza Gerusalemme e Striscia di Gaza, per questo stiamo lavorando a una riconciliazione con Hamas”, dice Abu Mazen a Repubblica. “Gli Usa devono imparare dall’Europa che ha con decisione condannato gli insediamenti che continuano ad essere costruiti in Cisgiordania”. Diversi Paesi hanno riconosciuto lo Stato Palestinese, come la Svezia e il Vaticano, ci sono anche 12 parlamenti nazionali, compreso quello italiano, che hanno chiesto ai propri governi di riconoscere il nostro Stato” ora “chiediamo che ora che questi governi, compreso quello di Roma, riconoscano la Palestina”.